TESTI CRITICI

Francesco Zavatta - Artista, Pittore Milano

Accade sovente che qualcuno si ritrovi costretto in un luogo e che la sua mente percorra strade già note ai suoi occhi, scorse durante viaggi, o ricordi delle proprie origini. Le nostre esperienze modificano le sinapsi e queste alterazioni permanenti sono le responsabili dell’anamnesi. Nel cervello si genera un segnale elettrico che provoca variazioni chimiche e strutturali dei neuroni grazie a una catena di reazioni e così anche l’immagine viene immagazzinata gelosamente nella memoria e lì permane..

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Un backup che archivia foto scattate dalla retina che, formata da ben dieci strati sovrapposti, invia all’encefalo le informazioni da interpretare. Tra le cellule, i coni sono i responsabili della visione a colori e sensibili solo a luci piuttosto intense, mentre i bastoncelli permettono di vedere anche quando la luce è scarsa. Elementi scientifici, questi, strettamente legati alla realizzazione di un’opera d’arte, soprattutto nel caso in cui è fortemente dichiarato che i processi di memorizzazione sono fondamentali all’interno della creazione artistica.

Svetislav Martinović e Francesco Zavatta fotografano pittoricamente luoghi, l’uno con grande attenzione verso strade, cieli ed architetture in cui si è imbattuto negli anni e l’altro rivivendo mnemonicamente la città in cui è nato e che ha lasciato, l’uno con l’acquarello e l’altro con i colori ad olio. C’è un fatto che, nonostante si sappia pochissimo sugli inizi della pittura, è indiscutibile e ne parla Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (XXXV, 15): essa nacque quando per la prima volta si riuscì a circoscrivere con una linea l’ombra di un essere umano. La presenza della proiezione del corpo è quindi legata ad un’assenza di questo, riportandoci all’arte egizia e alla pittura greca arcaica, esordi indiscussi. L’attenzione cade sulla linea e sull’operazione di riduzione delle fisicità e degli oggetti, su di un unico elemento geometrico che ricorre spesso attorno a noi. Segno grafico che si estende in lunghezza unendo due estremi, è riconducibile a vari oggetti della quotidianità che geometricamente approdano a questa figura. Un elemento semplice che può tuttavia assumere molte sfaccettature: da orizzontale a verticale, da diagonale a retta, da curva a spezzata, è sempre una serie infinita di punti che appaiono uniti per costituirne l’inizio e la fine. Attraversando vari stadi, dalla scienza fino alla produzione pittorica, si giunge all’essenza che gli artisti osservano con grande rispetto e riportano sulla tela sintetizzando il vedere.

L’approccio pliniano, tra storia e mito, focalizzato sulla linea dell’ombra, giunge ad una questione di forma concreta, presente e poco attenta alla proiezione, diligente nell’ascolto della propria memoria, nel ricordo di ciò che la retina ha registrato. Cielo e mare accolgono le linee, fragili e potenti allo stesso tempo, costruite dall’uomo che sente la necessità di avere punti di riferimento sparsi nell’ambiente che abita. Dal territorio urbano ai mari, con sfaccettature diverse, in Martinović e Zavatta ricorre la relazione con la vastità dello spazio, verso l’alto o giù in profondità, in cui vari segmenti risiedono. L’assenza della figura umana gioca con la sua presenza indiretta, la richiama senza raffigurarla, in un rimando di geometrie che sono forme create dalla sua mano. L’identità è strettamente legata all’ambiente raffigurato, una risorsa che, come l’ombra nasce dal corpo degli oggetti sulla tela. È presente nella sua assenza e si ritrova nei viaggi e nei punti di partenza della vita. Il girovagare di Martinović e il fermo ricordo di Zavatta conducono a esiti molto differenti ma richiamano entrambi una forte relazione con i luoghi e con gli oggetti ad essi riferiti. I fili della corrente sui tralicci e le briccole nell’acqua si guardano intorno emergendo fiere nella loro stabilità ma fragili nella loro sottomissione alla volontà dell’uomo capace di creare e annientare. Nulla di più caduco ed imponente allo stesso modo, punti cardinali di una bussola che in ogni momento può essere distrutta per ricominciare a costruire.

Il lavoro di Martinović, artista di origine serba, è fortemente legato ai sui studi e alla sua professione di architetto che, insieme alla passione e all’esercizio della pittura che porta avanti sin da molto giovane, conduce a risultati eccellenti in cui, in un’atmosfera oscura, svettano le linee. Verticali, orizzontali ed incrociate, di torreggianti pali della corrente e delle ferrovie, s’innalzano fin sopra ai tetti, ombreggiando tutt’intorno. I numerosi strati dell’acquarello permettono un’elaborazione dell’immagine che perde la solita e nota fluidità per imprimersi sul foglio e sottolineare la concretezza degli elementi rappresentati, guidando le forme con la mano abile e palesemente educata al disegno tecnico e progettuale. Rarefatta, l’aria pare opprimere lo sguardo che si alza verso il cielo per andare a scovare, con i piedi ben saldi per terra, i filamenti e le visioni urbane. Il silenzio di Stairs, le tonalità e l’orizzontalità convulsa, riportano alla mente l’epoca del muto con il cinema russo d’avanguardia che, con registi come Ejzenštejn, scuoteva lo spettatore con una sorta di violenza visiva, svegliandolo dal torpore dell’assorbimento passivo della storia, tematica ancora oggi molto attuale. Nuove emozioni scaturiscono dalla visione: La corazzata Potëmkin, capolavoro assoluto, soprattutto nella famosa scena della scalinata di Odessa, è indimenticabile, con l’arrivo improvviso dei soldati che sparano sulla folla. Questa tensione sembra insita nelle opere di Svetislav Martinović, pari alla trazione dei fili della corrente, alle superfici calpestabili ma non calpestate delle scale e alle vedute urbane dall’alto che sembrano attendere.

Il passaggio alle più luminose tinte di Zavatta, con l’intenso blu di Prussia preparato dall’artista con le polveri, è quasi destabilizzante. Il mare di Rimini, sua città natale, appare in tutta la sua profondità, con le briccole, e le corde ad esse collegate, che sono punti di riferimento per la navigazione e quindi per l’uomo. Il vasto orizzonte, che diviene quasi astratto, ci fa perdere nella bellezza della natura e necessita di punti fermi utili per l’orientamento. Il colore si addensa, diviene più materico, nella realizzazione della briccola a cui sono legate le corde che si perdono nell’acqua, scompaiono per essere recuperate al momento giusto. Gli Attracchi divengono simbolo dell’identità dell’artista, punto di contatto con le origini, ovunque esso vada. Lo seguono indisciplinatamente non abbandonandolo mai e esso ha bisogno di loro. Queste sagome ricorrono nella memoria e vengono traslate sulla tela, senza inutili sentimentalismi ma con una conservazione delle forma che si porta con sé il mare. Il confronto con l’elemento naturale ha spesso innescato, nella Storia dell’Arte, riflessioni di vario genere; negli anni Sessanta Pino Pascali, in 32 metri quadrati di mare circa, riduce l’estensione delle acque ad una dimensione più o meno precisa, facendo già emergere il conflitto, che diverrà poi sempre più acre, tra natura e artificio. In Zavatta l’intento non è di certo politico ma l’acqua è, come in Pascali, elemento primario per eccellenza e le linee, verticali delle briccole, sono principi minimali, tratti che indicano una direzione attraversando l’immenso. Le vastità vengono interrotte, nei cieli di Martinović e nei mari di Zavatta, da apparenti fragilità che creano un collegamento tra ciò che scorgiamo davanti a noi e ciò che per vedere dobbiamo fare lo sforzo di seguire verso l’alto. Milena Becci, Vastità interrotte, testo per il catalogo della mostra BACKUP, Rimini, Zamagni Arte, ottobre 2020

Milena Becci


Era stato sornionamente profetico Giorgio Morandi. Ad inizio 1960 Manlio Cancogni era venuto a Bologna a trovarlo per un’intervista da pubblicare su l’Espresso. Terminato il dialogo, avevano lasciato lo studio di via Fondazza per fare un giro per la città. Erano anni di rapide trasformazioni, e anche il centro storico si misurava con le necessità di un traffico automobilistico sempre più nevralgico ed intenso. L’asfalto rivestiva le strade e sull’asfalto comparivano le strisce bianche pedonali o della divisione delle carreggiate.

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Vedendo alcuni operai intenti a dipingere ad un incrocio Morandi se ne uscì con questa battuta rivelatrice: «Finiremo a dipingere così noi pittori». Non andava certo lontano dal vero il grande artista: in quegli anni in America Frank Stella già lavorava su linee tirate con la stessa regolarità di quegli addetti alla segnaletica stradale. Senza andar così lontano, Mario Schifano nel 1962 avrebbe realizzato uno dei suoi quadri a grandi campiture, con uno spezzone di strada e una linea di segnaletica discontinua nel centro. «Finiremo a dipingere così noi pittori». La battuta potrebbe essere interpretata come un de profundis per la pittura. Ma Morandi era troppo intelligente e troppo dentro la pittura per lasciarsi andare ad un simile fatalismo. Del resto lui stesso usando il “noi” sembra non sottrarsi a quel destino. Questo aneddoto probabilmente ci dice molto di lui, della coscienza che lo muoveva, che la pittura non fosse più questione di contenuti o di forme, ma fosse soprattutto una questione di linguaggio. E linguaggio erano appunto le sue bottiglie, reiterate sulle tele proprio come le strisce sull’asfalto. Sembrava forse dirci Morandi, che la pittura aveva bisogno di un bagno di ascetismo anche a costo di apparire muta.

Ho fatto questa premessa perché l’onda lunga di quell’apparente ripiegamento si è tutt’altro che esaurita e spesso investe gli artisti nel cuore dei loro percorsi. È quello che ad esempio è accaduto a Francesco Zavatta, come documentato dalla serie di opere che testimoniano il cammino compiuto e che con la loro novità danno un senso pieno a questa sua nuova mostra al Palazzo Marliani Cicogna di Busto Arsizio. Si può ipotizzare che anche Zavatta sia stato messo di fronte ad una sorta di presa d’atto suggerita dal contesto. Non c’è nel suo caso il tappeto d’asfalto disteso tra le vecchie vie di una città come Bologna, a segnare una cesura. Lui vive in un contesto moderno ad oltranza, dove la topografia disegna grovigli di strade perennemente trafficate. È un territorio sottoposto a grandi stress proprio per la densità di infrastrutture che lo caratterizzano. Ma visto dal cielo (o basta più semplicemente andare a scrutarlo attraverso l’occhio di Google Earth) svela una sapienza di geometrie, con le mille arterie dei tracciati stradali e ferroviari che fanno da trama e ordito di un tessuto alla fine ordinato. Non è lontano il grande aeroporto, finestra aperta sul mondo, con le sue distese d’asfalto, che funzionano da immense lavagne sulle quali gli uomini sembrano essersi sbizzarriti a disegnare, con costanza e con calligrafica precisione, linee di ogni tipo.

Zavatta ha fatto dunque i conti con questo suo “qui”. Li ha fatti con decisione e con dedizione, trasformando queste geometrie a lui così contigue nella griglia visiva che fa da filo conduttore per gran parte dei lavori presentati a Palazzo Marliani Cicogna. Sono lavori il cui ordine è incardinato sulla semplicità ed essenzialità di una linea; una linea che non è proiezione astratta o mentale, ma ha sempre la concretezza determinata dallo spazio che ogni volta attraversa, o meglio, che ogni volta essa stessa spalanca. Dirò di più: la linea di Zavatta ha l’energia garantitale dal fatto di contenere nel suo dna una direzione, di proiettarsi verso un dove, che è promessa di un nuovo “qui”. Promessa vera, perché ci consegna, intanto, come caparra, una nuova idea o esperienza di pittura. Il risucchio di questa spazialità nuova e anche così prossima infatti finisce con l’essere un risucchio per la pittura stessa, che si fa più trattenuta, più magra e quindi anche più pura. È una pittura che disciplinatamente si dispone a servizio della linea, tracciata facendo ricorso al nastro per delimitare i bordi e ripulire quindi il segno dalle possibili increspature della soggettività.

Mi piace pensare che Zavatta abbia pensato questa mostra proprio per documentare un processo che sembra una vera e propria germinazione. La linea che nelle opere con a tema le ferrovie era una sorta di sussulto, di lampo fuggente, restituito attraverso un segno pittorico tutto di abilità, poco alla volta emerge come elemento asciutto che si impone sulla pittura stessa, la prende quasi per mano. Buca il tessuto delle pennellate nella serie “Airport”, sorprendendo lo sguardo con quella sua energia limpida e travalicante. Arriva infine a piena maturità con la serie dei “Parking”, dove la linea prende possesso dello spazio, disegnando ogni volta un ordine inedito, limpido nella sua identità minimale. Anche il formato delle opere sembra uniformarsi, come accade nelle piccole 20 tele di “Parking Lots”, tutte quadrate, tessere allineate a formare un unicum che sfila come una corsia aperta però ad ogni direzione. Opere nate coraggiosamente da una scelta di serrata serialità. Da una parte Zavatta sembra aver assimilato la lezione di Ed Rusha con la straordinaria sintesi di geometrie urbane dei suoi “Thirtyfour Parking Lots in Los Angeles” (1967); dall’altra la sua pittura si nutre anche delle esperienze di predecessori che nella stessa Lombardia hanno aperto la superficie dipinta alla libertà di un nuovo spazialismo, cioè delle esperienze di maestri come Roberto Crippa o Sergio Dangelo. Zavatta dal canto suo immette nella pittura un tratto distintivo che voglio qualificare come un’intrinseca velocità. Non è solo rapidità di esecuzione, ben percepibile anche al primo sguardo, in tutto il suo percorso. È una velocità immessa nella tela, come aspirazione ad un orizzonte; come corsa dell’immagine verso questo orizzonte. Sono quadri che scappano in direzione di un punto di fuga teoricamente lontano ma reso prossimo dalla realtà stessa della pittura. La linea in questo dinamismo gioca un ruolo imprescindibile; da una parte è elemento scatenante di questa corsa, dall’altra funziona da raccordo, da legame con quell’orizzonte. “Dentro l’orizzonte”, non a caso, era stato, ad un certo punto del percorso di progettazione della mostra, un possibile titolo, ad indicare come l’energia della pittura di Zavatta fosse un’energia amica, tesa a rendere avvicinabile l’inavvicinabile.

Poi, per quanto riguarda il titolo, si è approdati ad un’altra formulazione: “Open Space”. È un titolo “aperto” a tante letture, proprio come la pittura a cui è approdato Zavatta in questo suo percorso. Le due parole che lo compongono sono infatti come la combinazione chimica da cui si generano questi quadri. Già nel suo recente passato Zavatta ci aveva abituati a immagini che si spalancavano sulla superficie quasi travalicando il confine della superficie stessa. Erano immagini emotivamente intense, anche per i soggetti su cui insistevano: soggetti cari agli occhi e al cuore di tanti, a partire dal grande Duomo milanese. In quelle opere lo spazio aveva quindi una valenza sentimentale che si traduceva in febbre pittorica. Nelle nuove opere Zavatta ha lasciato da parte quella attrazione sentimentale e ha avuto la forza quasi di “raffreddare” la sua pittura, a partire dalla scelta dei soggetti; una pittura che si è fatta quindi visibilmente più compatta, meno emotiva, in un certo senso più “pop”. Sono spazi liberati dal tema, perché il tema centrale è diventata la linea, cioè un elemento interno alla pittura e alla composizione, esattamente come aveva previsto Morandi osservando gli operai che dipingevano la segnaletica stradale. Ma operando questa transizione Zavatta è approdato su orizzonti sorprendentemente “aperti” e quindi suscettibili di nuovi percorsi, capaci di intaccare positivamente l’identità stessa della sua pittura. “Open space” quindi è un dato di fatto visivo che attraverso questa serie di opere si spalanca felicemente davanti agli occhi dei visitatori. Ma dall’altra parte è come la premessa (e anche promessa) di un cammino. È esito e insieme proiezione di un qualcosa che sarà e che saremo chiamati a vedere nel prossimo futuro. In questo senso “Open Space” è una mostra davvero “aperta”: è una mostra che ci parla di quel è e di anche di quel che sarà. Di quel che potrà essere il percorso prossimo di Zavatta. Ma è aperta anche in un altro senso: infatti Zavatta con questo serie di lavori sviluppatisi a partire dalla contaminazione (e compromissione) con il suo “qui”, cioè con il “qui” della terra in cui vive e lavora, apre ad un “là”. È il “là” di uno spazio reso immediato e semplice; di uno spazio geografico che sa farsi orizzonte, tensione verso un altrove che non è estraneo al “qui” ma ne è sempre amorevolmente compagno.

Giuseppe Frangi


Francesco Zavatta viene dal mare. Per questo, come ha giustamente colto lo sguardo fine di Philippe Daverio, la sua pittura predilige le linee orizzontali. Zavatta è nato a Rimini e certamente le immagini di quella distesa d’acqua, pacifica ma allungata all'infinito gli è rimasta negli occhi. O forse, sarebbe meglio dire, gli è rimasta nel pennello. Oggi Zavatta ha spostato l’asse della sua vita dove il mare non c’è, nella Lombardia più industriosa che poco tempo ha da dedicare ai pensieri bucolici. Ma per lui questo trasferimento verso un territorio più attivo e più ricco di opportunità per gli artisti non si è tradotto in una perdita, perché il mare gli è rimasto dentro.

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La sua è una storia artistica precoce. Nonostante i genitori imprenditori, ha scelto prima l’artistico e poi l’accademia: triennio a Firenze e biennio magistrale a Venezia. «Per imparare il disegno e successivamente per imparare l’uso del colore: due città non a caso», racconta con la precisione di chi ha saputo calcolare con saggezza i suoi passi. In realtà, la miccia era scattata nell'incontro con l’artista meno calcolatore della storia: Vincent van Gogh. La lettura prima e la visione del film dopo di Brama di vivere (libro di Irving Stone, film di Vincente Minnelli) era stata come una folgorazione sui sogni di Zavatta ragazzo. Una scossa emotiva che si è impressa sulla sua anima e che lo ha portato a essere artista. Zavatta è indiscutibilmente pittore. Per lui la pittura è diventata una sorta di equivalente del mare. Non a caso le sue stesure sono sempre fluide e liquide, i colori non hanno mai perimetri definiti. Le sue pennellate scivolano sulla tela, a volte lascia che il colore coli in modo casuale e, come lui dice, «vada per la sua strada». Salvo poi riprendere il controllo del quadro e riportare tutto all'immagine di partenza che aveva negli occhi. Sono quadri che a volte restituiscono il movimento dell’onda, per quell'impeto che vi si scorge, per quel ritmo molto naturale che li regola e li muove. «L’elemento della trasparenza e dei riflessi dell’acqua è all'origine della mia pittura», spiega Zavatta. «Di conseguenza è un po’ la mia “cifra”, cioè anche se l’acqua non c’è, io la vedo, è una parte costitutiva di me». Per questo si può dire che pur dipingendo città, montagne o altri soggetti, sempre si ha la sensazione di avere a che fare con il mare. È mare anche Milano, uno dei suoi soggetti prediletti. «Milano», racconta, «è stata la prima città che è entrata come soggetto nei miei quadri. Prima la città era solo uno sfondo per il mare o la laguna, invece con Milano la città è entrata prepotentemente nella tela. È stato un impatto molto forte in cui la mia pittura ha dovuto cambiare completamente le regole». In effetti Milano lo costringe a costruzioni più verticali. Sulla pelle di Milano è rimasta l’identità indelebile impressa da Boccioni con La città che sale. Anche in Zavatta la città sale, in particolare quando mette nell'obiettivo lo skyline gotico del Duomo. Per un sussulto di memoria visiva, tra le guglie c’è sempre una luce che richiama quella del sole che sorge dalla linea infinita del mare di casa sua, l’Adriatico. È quel bagliore dell’inizio del giorno che riempiva di stupore Zavatta ragazzino: «Anche quando ho incominciato a confrontarmi con Milano, per rendere la dinamicità dei palazzi della città, ho dovuto riguardare bene tutti i riflessi dell’acqua che avevo fatto in precedenza». Il mare gli ha anche trasmesso una smaccata preferenza: quella per il blu. Se tutti gli altri colori si accontenta di spremerli dai tubetti, il blu invece lo produce lui in studio. Compera a Firenze, al mitico colorificio Zecchi, barattoli di pigmento di blu di Prussia e poi con l’olio di lino impasta un colore, badando a conservare una granulosità che lo impreziosisca. È il blu che allaga le sue tele specialmente quando sceglie come soggetto non tanto il mare, quanto l’oceano. Cioè un mare al quadrato, per profondità, dimensioni e forse anche luminosità. Sono le vedute da Cabo de São Vicente, sulla costa portoghese, con il mare che si stampa sulla roccia delle altissime scogliere. Il blu dell’acqua e anche dell’aria si trova però a combattere con i colori eccitati della costa. «Ma perché usi i colori così vivi?», mi chiedono spesso. Io rispondo che per me usare i colori vivi è un modo di guardare le cose con meraviglia e gioia».

Giuseppe Frangi


Francesco Zavatta è proprio di Rimini, perché a Rimini hanno tutti una grande tensione alla linea d’orizzonte del sole nascente e vedono questa bruma mattutina come una sorta di alba della vita che vivono. Lo riporta anche un po’ a Milano perché è riuscito a mettere il Duomo in mezzo alle nebbie nascenti della Riviera Adriatica.

Philippe Daverio


«Ogni forma o superficie che non possiede la concretezza pulsante della carne e delle ossa vere, la sua vulnerabilità al piacere o al dolore, non è niente. Un quadro che non offre l’ambiente in cui si possa infondere il soffio della vita non mi interessa». Per Mark Rothko questa era l’arte: puro colore per cogliere il soffio primordiale della vita. A chi guarda, mosso dal desiderio di perdersi nella sua pittura, alla fine è donato di cogliere la luce. Sprigiona da dentro l’opera, profonda e quasi inafferrabile. Anche quando il nero e il grigio predominano - come nella cappella di Houston - quella luce non è vinta, è all’origine del tutto e insieme destino ultimo. Le tenebre possono avvolgerla, ma non possono vincerla. Rothko cercava quella luce, anche quando ha pensato di non poterla più trovare, anche quando ha temuto che fosse solo illusione, parvenza di un sogno.

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La stessa luce attrae Francesco Zavatta. La luce originaria. Quella che i tramonti sul mare di Rimini, la città natale, lasciano solo presagire. Nostalgia di una bellezza che è sempre oltre. All’inizio, per il giovane artista, la luce era nell’acqua. Trasparenza e riflessi sono all’origine del suo modo di guardare e di cogliere le cose, del suo fare pittura.

Tutto comincia con una colatura: quel fluire come da una sorgente o da una ferita. Poi, con spatola e pennello, impugnati come fosse uno “spadaccino” - così dice di sé – si immerge nei suoi colori. Lui e la tela, bianca come il vuoto, muta come un muro. E il duello ha inizio. O forse una danza. Al suono e al ritmo di spatola e pennello sulla ruvida trama. Dal movimento l’opera prende forma. Potenza del gesto. Quell’action painting che non ha segnato solo Pollock e amici, ma ha radici lontane come l’arte stessa. «La mia è una lotta per far accadere ciò che ho visto, per afferrare la realtà». Non la superficie delle cose, ma quel che le sorregge: quella musica, quella luce, quel fondamento che i nostri sensi, la nostra mente e il nostro cuore percepiscono come domanda e come presenza di bene, di bello e di vero talmente grande da non poter essere afferrata. Ma che si offre sempre come invito: a essere accolta, a essere abitata, a farsi cammino e scoperta. È l’invito di Benedetto XVI agli artisti: «L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano» (Cappella Sistina, 21 novembre 2009).

È affascinato Zavatta da quell’invito. Lo avverte in tutta la sua potenza e urgenza e con movimenti rapidi eppure armoniosi impasta di luce i suoi colori, che prima erano mare, poi laguna, e ora città e montagna. Azzardo di cromie che non esistevano e ora ci sono. Perché con la sua tavolozza vuole abbracciare il mondo, per essere dentro le cose. Rivelarlo, quel dentro, e insieme trovare un punto focale, là dove tutto si apre (e si diffonde, si fa trasparenza e orizzonte). In quel punto preciso tutto è portato a unità, oltre il multiforme e dispersivo apparire nell’affollarsi dei particolari che impediscono uno sguardo d’insieme. «Ciò che mi interessa è che venga fuori in ogni opera una sorta di essenzialità».

Non è stato sempre così. L’idea di fare il liceo artistico non nasceva da una vocazione, ma da un ripiego: poca voglia di studiare e la comodità di avere la scuola vicino a casa. Il sogno era un altro. Alle tempere preferiva il verde dei campi di calcio. Francesco si vedeva portiere. Militava nelle giovanili del Rimini, allora in serie B.
Poi qualcosa accadde. Le lettere a Theo gli aprirono occhi e cuore su un mondo che prima aveva solo sfiorato. «L’intensità con cui Van Gogh percepiva le cose la desideravo anche per me». Da qui la decisione. A 15 anni il pallone si trasforma in hobby. Nonostante il debito in disegno, Zavatta decide che per lui c’è solo un futuro, quello dell’artista. Per i primi tre anni di Accademia sceglie Firenze. Il punto debole, il disegno, vuole che diventi la sua forza, e quale maestro migliore di Michelangelo? Quindi prosegue gli studi a Venezia, il più grande miracolo sorto sull’acqua (l’elemento in cui Francesco è più a suo agio). E poi gli incontri che lo arricchiscono, lo fanno crescere come uomo e come artista: con lo stilista Erasmo Figini, con lo scultore Adriano Bimbi, con i pittori Giovanni Frangi e Davide Frisoni. Zavatta non è un solitario, il dialogo lo ama e lo coltiva. Un dialogo intrecciato con i grandi e con i piccoli. Gli piace portare l’arte nelle scuole: dall’immersione nei colori per i bimbi dell’asilo alla riflessione sul senso della pittura con i ragazzi delle medie. Anche questa mostra nasce da un dialogo, quello con gli amici e i collezionisti. Da loro riceve immagini che colgono la bellezza della natura o nascono dallo stupore che squarcia la quotidianità. Paesaggi e non solo. «Un giorno un amico mi ha chiesto: perché non fai un quadro sul lavoro? Ero perplesso. Perché la figura umana non era ancora entrata nelle mie tele. Però ho subito intuito una sfida grande e così ho iniziato a dipingere momenti e gesti di quotidianità e lavoro». E anche nel paesaggio Zavatta ritrova l’uomo: quando comincia a dipingere le montagne, questo erompere di terra verso il cielo. «Le guardavo e avevo il desiderio di farle mie. All’inizio cercavo di rendere solo le linee delle rocce. Le tracciavo con un movimento veloce. Senza far uso del colore e della materia. Questi miei lavori, nel gioco di piani e di luci, mi ricordavano i disegni in cui ritraevo i Prigioni di Michelangelo, che avevo realizzato ai tempi dell’Accademia. Buonarroti guardava la figura come se dovesse uscire dal masso di marmo, così io vedevo le montagne come grandi figure pronte a uscire da se stesse e mostrarsi in tutta la loro maestosità».

Il lavoro e l’amore della sua vita (che risponde al nome di Anna) gli aprono le porte della metropoli. Milano diventa la sua seconda patria. Ma l’acqua dei Navigli ormai da decenni è costretta sotto l’asfalto. E così Francesco, per cercare il suo elemento, ha dovuto alzare gli occhi al cielo. «Il cielo di Milano mi ricorda il mare». Un cielo disegnato dai fili. I cavi del tram: ecco l’elemento che immediatamente lo colpisce e che desidera fare suo. Sono fili della memoria, sono radici piantate nel cielo. Un pensiero di madre Teresa è affisso al muro dello studio di Zavatta: «Spesso si vedono i fili metallici piccoli o grandi, vecchi o nuovi, cavi elettrici economici o costosi che restano inutilizzati, perché se non vi passa la corrente non servono a far luce. I fili siamo voi e io, la corrente è Dio. Noi possiamo decidere di lasciar passare la corrente attraverso di noi, di essere usati. O possiamo rifiutare di essere usati e permettere all’oscurità di diffondersi».

Così, nei paesaggi di colore dell’artista, la città per la prima volta diventa protagonista della tela. Con quel suo fermento di vita che è lavoro, studio, movimento. C’è entrata in modo non scontato, anzi, l’impatto è stato duro: «La prima opera si intitola Via Andrea Costa. È cominciata con un gesto violento: la china nera gettata sulla carta, là dove era il cielo. Avevo capito che la mia pittura doveva cambiare regole».

C’è nello sguardo di Zavatta qualcosa che commuove. È davvero lo sguardo del fanciullo, e non si vergogna di esserlo, capace di non dare nulla, ma proprio nulla, per scontato. Con un fil di ferro, con un gessetto i bimbi possono creare un gioco che è poi un mondo. Anche Francesco a partire dal filo di un tram o dalle zebrature sull’asfalto crea mondi. Anche lui si lascia sorprendere dalla gioia, anche lui non conosce confini. Nella sua arte si tocca con mano quel che diceva Stanislas Fumet: «Il bello è il bene che si dona come spettacolo per fare amare l’essere».

Giovanni Gazzaneo


Ho visto per la prima volta i lavori di Francesco un anno fa, andando all’inaugurazione della mostra Squarci, a Milano. Guardando i quadri dalla strada, prima di entrare in galleria, mi suscitarono immediatamente una impressione di nostalgia. La luce che vedevo in essi mi ricordava delle mie giornate milanesi, specialmente autunnali o quasi invernali, dove il sole durante il giorno si vede pochissimo: lo si può vedere solo al tramonto, quando illumina l’orizzonte. In queste giornate, però, si vedono le strade bagnate, i fili della luce, cioè una veracità che vive, che si muove sullo sfondo di un sole che, pur quasi scomparendo del tutto, non ha ancora abbandonato la città. È un sole della nostalgia.

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Mi ha colpito molto perché pensavo fosse una sensazione solo mia e invece, vedendo i quadri di Francesco, mi sono detto che forse questa è una cosa che fa molta nostalgia a me, ma fa molta nostalgia a tutti, visto che un artista l’ha riprodotta.

Nei quadri di Francesco, inoltre, colgo una grande energia, come una grande volontà di fare. Non è una cosa che immagino venga fuori da un pensiero lento, ma da un pensiero molto forte, molto preciso, che nasce ancora prima dell’opera. Nell’opera ci sono le cose, ma si avverte che è un modo tuo di vedere le cose, forse è un modo di tanti di vedere le cose, perché le cose non sono quelle che appaiono al momento ma quelle che sono rimaste anche nel nostro ricordo. Per cui il quadro è sempre molto emozionante proprio perché evoca ricordi. Non evoca le cose come sono nel preciso momento in cui le guardiamo, ma come sono quando ce le ricordiamo, questa è la mia impressione.

Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare sempre molti artisti: Andy Warhol, Keith Haring, Jean Michel Basquiat, mi sono circondato di creativi perché penso che nutrono il mondo con le loro visioni. Quando ho incontrato Francesco ho incontrato una persona che prima di tutto ha una grande umiltà, come tutti i grandi artisti che inseguono un sogno, e poi che crede molto profondamente in quello che fa. Le cose perché abbiano successo bisogna amarle, bisogna sentirle e questo si capisce subito. Io credo che un artista abbia dentro di sé il desiderio che la propria opera possa essere capita, che il suo linguaggio possa essere compreso. E in questo caso mi sembra che siamo molto, molto avanti. Io dai suoi quadri è come se vedessi le immagini che trasmettono i ricordi della mia vita, è un bellissimo connubio tra i miei ricordi e quello che lui guarda e che, credo, siano anche i suoi ricordi.

Questa comunione è ciò che commuove chi guarda i suoi quadri.

Elio Fiorucci


La realtà si svela rimanendo mistero, i contorni delle cose prendono forma e si dissolvono, i colori, le linee, i tratti creano un’atmosfera così intensa, così carica affettivamente che quasi senza accorgerti ti ritrovi in piazza Duomo, sei immediatamente dentro uno spazio e un tempo che il cuore riconosce, avviene una strana sincronizzazione che ti consente di entrare e di agganciare ricordi e sensazioni, è come se fossi lì, respiri Milano.

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I fili del tram, come grandi e piccole finestre tra cielo e terra, ti consentono di vedere oltre l’apparenza e di immergerti in una dimensione fuori dal tempo ma nel tempo dove tutto nasce e si rigenera. Guardando questi quadri uno per uno, entrandoci dentro, lasciandomi colpire da tutto quello che portano, da quel che Francesco voleva comunicare dipingendoli, mi son tornate in mente le parole di Christian Bobin su Santa Teresa d’Avila: “quando Teresa preparava da mangiare alle sue consorelle, era intenta alla buona cottura di un piatto e nello stesso tempo concepiva splendidi pensieri in Dio, esercitava quell’arte del vivere che è l’arte più grande: gioire dell’eterno prendendosi cura dell’effimero.

Ecco, credo che in questo dialogo profondo ed intenso che continuamente afferma la presenza di un significato, di una presenza buona che dà densità e consistenza a tutto ciò che c’è, sia racchiuso il segreto di questa pittura che rimane agganciata alla verità di ciò che vede cogliendone l’essenza.

Susanna Pagani

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